E’ anche una questione di prezzo: proprio così, la sostenibilità è anche una questione del costo che il consumatore deve pagare per acquistare un capo di abbigliamento. E poi è anche una questione di educazione al consumo: come si può acquistare una t-shirt a 5 euro senza domandarsi come sia possibile pagare un costo così basso? e come si può pagare una t-shirt 300 euro senza domandarsi come sia possibile che abbia un costo così alto? Riconoscere la qualità è diventato un problema, perché i clienti non sono più in grado di apprezzarla. Questa settimana su Vogue Business è uscito un articolo molto interessante: “What Is the Right Price for Fashion?”. Non possiamo fare a meno di chiedercelo: qual è il prezzo giusto?

Realizzare un capo: una lunga catena di produzione

Dalla progettazione al negozio, sono tantissimi gli step che servono per realizzare un capo. Sono coinvolte moltissime imprese, tante persone, un grosso impegno logistico. Questa è una schematizzazione del funzionamento della catena di produzione turca, giusto per fare un esempio.

https://journals.openedition.org/articulo/2889

Com’è possibile che una t-shirt possa superare tutte queste fasi e arrivare un negozio a 5 euro? Vediamo come viene costruito il prezzo di un capo di abbigliamento. Una volta terminata la fase di produzione, abbiamo quello che possiamo definire “costo industriale” del capo; a questo nome va aggiunto un mark up per il produttore (il suo profitto, praticamente) al quale va poi aggiunto il mark up del negozio, se il capo è acquistato in negozio. Lo standard del settore per un margine di profitto è compreso tra un markup di 2,2 e 2,5, il che significa che un abito che costa 100 euro a un designer potrebbe essere venduto a un rivenditore per 220 euro. Quel rivenditore deve marcare nuovamente di 2,2 volte per realizzare il proprio profitto, portando il prezzo finale a 484 euro.

E’ quindi evidente che la maggioranza del profitto non è sicuramente concreata nella fase di produzione, ma piuttosto nella fasi logistiche, distributive, di marketing, che portano il consumatore all’acquisto in negozio oppure on line. Non può esserci spazio per sostenere anche i costi e l’impegno per una strategia di sostenibilità credibile per coloro che applicano questi prezzi in negozio.

Il marchio americano Everlane è stato tra i primi a rendere trasparenti i costi della propria catena produttiva e il profitto realizzato su ogni capo: nato come marchio che vende solo su e-commerce, il brand voleva anche comunicare il risparmio che un consumatore può ritagliarsi acquistando senza intermediari (ne ho parlato nell’episodio 2 del podcast “Trasparenti ma non troppo“). Prendiamo ad esempio un jeans donna presente sul sito di Everlane: costa 13,58 dollari di materiale; 3,21 dollari per la progettazione; 8,88 dollari di lavoro; 4,25 di dazi ; 1,61 dollari di trasporto. Il costo totale è di 31,28 dollari. Everlane lo vende a 63 dollari. Un negozio lo venderebbe a 156.

La malattia dello sconto

Un prezzo troppo basso pone molti interrogativi: come possono essere stati pagati adeguatamente i lavoratori impiegati lungo tutta la catena di fornitura? Allo stesso modo pongono molti interrogativi anche i prezzi molto alti (che negli ultimi anni sono lievitati in maniera incredibile) dei grandi brand del lusso. I costi di produzione di quei capi, spesso non giustificano i prezzi applicati. E qui entra in gioco la malattia dello sconto: il bene di lusso in molti casi si acquista a sconto, ci si aspetta, come se fosse una regola non scritta. O per meglio dire: o si è così ricchi che il prezzo pagato è ininfluente oppure si aspetta lo sconto, che presto arriverà. Secondo L’Economist meno della metà dei capi di abbigliamento di lusso vengono venduti a prezzo pieno.

Lo sconto sfrenato ci ha insegnato a dubitare del prezzo di qualsiasi cosa e così non riusciamo più a dare il giusto valore alle cose. Alcuni rivenditori stanno effettivamente aumentando i loro margini per compensare l’inevitabile perdita del 30% o del 40%, dovuta agli sconti, raggiungendo anche mark up di 4. E chi acquista a sconto è convinto di aver fatto un affare, si sente gratificato, mentre invece ha solo foraggiato un sistema malato in cui niente costa quanto vale.

Lusso o fast fashion: dove sono finite le proposte intermedie?

Sta accadendo nel mondo della moda quello che accade anche nella società: c’è una polarizzazione tra una fascia di popolazione che acquista solo fast fashion e una piccola fascia di popolazione che acquista beni di lusso. Per chi vuole acquistare capi ben fatti, con attenzione ai metodi di produzione, con particolare attenzione al design e ai materiali, trova sempre più difficile trovare delle proposte convincenti. I canali di vendita mainstream offrono sono queste tipologie di prodotto: fast fashion o lusso. Le vittime di questa situazione sono designer e brand che cercano di portare valori diversi nel settore, ma che non possono competere in nessuno dei due mercati e non possono attrarre nessuno dei due pubblici.

Solo una maggiore educazione del consumatore potrà salvarci dalla deriva che sta prendendo il mercato. Dovremo porci qualche domanda in più: ok, il prezzo è giusto?