Tutti vogliono il cotone organico, potremmo iniziare così. Utilizzare una materia prima sostenibile è il modo più semplice per un brand di dire che è sostenibile: ma è davvero cosi? Quello che è certo è che l’impatto ambientale e sociale della produzione del cotone non è di poco conto. Ne parlo anche nell’intervista di questo episodio del podcast con Marzia Lanfranchi, co-founder di Cotton Diaries.
Cos’è il cotone organico
Il cotone organico è cotone prodotto e certificato secondo gli standard dell’agricoltura biologica. La sua produzione viene effettuata nel rispetto della salute del suolo, degli ecosistemi e delle persone utilizzando processi naturali. Non vengono utilizzati agenti chimici per la sua coltivazione e ha un minore impatto sull’atmosfera: per la sua coltivazione si usa l’88% in meno di acqua e il 62% in meno di energia. Per il cotone convenzionale si usano circa il 16% di insetticidi e il 7% di pesticidi che vengono utilizzati al mondo. Il cotone occupa il 23% del mercato delle fibre nel mondo: di questa cifra considerevole il 25% è organico, e negli ultimi si è registrato un vero e proprio boom.
Abbiamo parlato dell’impatto ambientale e non di quello sociale, che è ugualmente molto pesante: nella piantagioni di cotone si riscontrano numerosi casi di sfruttamento, lavoro minorile, turni massacranti, condizioni precarie di lavoro. Nel percorso dalla semina alla raccolta per poi arrivare agli stabilimenti dove il cotone verrà filato, si registrano condizioni di lavoro complicate che fino a qualche anno fa non erano considerate, perché storicamente il cotone ha sempre causato sfruttamento. Il cotone organico serve anche a questo: a portare in tanti Paesi del mondo una nuova cultura della coltivazione, ma anche un concetto di rispetto e responsabilità sociale che spesso in questo settore è passato in secondo piano.
Le certificazioni del cotone organico
Le certificazioni e i programmi di affiliazione relativi al cotone organico sono moltissimi e sul sito di Textile Exchange trovare una ricognizione completa. Le più utilizzate sono GOTS, OCS e BCI. Prima però è necessario fare una precisazione: una cosa sono le certificazioni (come GOTS e OCS) dove c’è un organismo di parte terza che fa una verifica per garantire il rispetto di un disciplinare e della tracciabilità; un’altra cosa sono le iniziative come BCI che garantiscono un impegno (soprattutto economico) dell’azienda per migliorare le cose in un determinato comparto, ma che non sono oggetto di verifica.
GOTS (Global Organic Textile Standard) è una certificazione rilasciata dall’organizzazione Global Standard (per una svista nel podcast dico che è rilasciata da Textile Exchange, scusatemi per l’errore) che garantisce l’utilizzo di fibre naturali provenienti da agricoltura biologica. Segue il prodotto in tutte le sue fasi: dalla materia prima alla produzione del capo. Viene seguito un rigido disciplinare che garantisce la tracciabilità e il rispetto degli standard sociali, oltre a valutare anche gli agenti chimici utilizzati nelle lavorazioni.
Poi c’è OCS, (Organic Cotton Standard)) che è una certificazione rilasciata da Textile Exchange, ma che è uno standard della catena di custodia che richiede che ogni organizzazione lungo la catena di approvvigionamento adotti misure sufficienti per garantire che l’integrità e l’identità del materiale di input siano preservate. E’ meno rigido del GOTS sul rispetto della normativa sociale e sull’utilizzo dei prodotti chimici.
Il BCI è sicuramente il più diffuso. BCI (Better Cotton Iniziative) certifica la creazione di prodotti tessili realizzati con cotone da coltivazione sostenibile. BCI lavora con i coltivatori di cotone di tutto il mondo, fornendo formazione e sviluppo di capacità su pratiche agricole più sostenibili. I produttori devono soddisfare i requisiti fondamentali dei principi e dei criteri di Better Cotton per ottenere la licenza per coltivare e vendere il loro cotone come BCI. Non è una certificazione che segue il prodotto fino alla sua fase finale, ma si limita a controllare la materia prima. L’obiettivo principale del programma è avere le risorse per poter portare avanti il proprio lavoro di educazione e assistenza in tutti i Paesi nei quali BCI opera. BCI assiste oltre 2.3 milioni di cotton farmers in 23 Paesi.
Ma attenzione: il cotone BCI si ottiene attraverso un sistema di Mass Balance e non è fisicamente riconducibile ai prodotti finali: quindi può essere miscelato con cotone convenzionale. BCI opera con una finalità innanzitutto educativa ed umanitaria: un processo meno rigido di tracciabilità permette di poter essere gestito in maniera più semplice e con meno costi, così da raggiungere un numero maggiore di coltivatori di cotone.
In questi giorni è uscito il report sull’attività svolta dall’organizzazione nel periodo 2018-19 e non sono mancate le critiche: l’approccio di BCI viene definito troppo timido sul versante della sostenibilità e offre una soluzione poco impegnativa a tutti quei brand che vogliono mettersi al petto la medaglia della sostenibilità senza essersela guadagnata.
Quando nasce il cotone organico
Lo sapete dove è iniziata la storia del cotone biologico? Negli anni ’90 negli Stati Uniti prese forma un movimento tra i coltivatori per la trasformazione delle coltivazioni a cotone biologico. In quegli anni erano iniziate le grandi causa negli USA contro le grandi multinazionali che producevano pesticidi e insetticidi, che sono andate a inquinare la falda acquifera in vaste zone del Paese, hanno contaminato il suolo, ma sono state anche responsabili di gravi malattie e morti nella popolazione che abitava quelle aree: leucemie, tumori, malattie neurologiche.
Un gruppo di coltivatori decise di iniziare a sperimentare la coltivazione organica del cotone e un gruppo di brand americani si approvvigionò da queste aziende, creando le prime collezioni: parliamo di Levi’s, Banana Republic, The Gap, per dirne qualcuna.
Ma la favola del biologico durò poco: nel 1997 il New York Times titolava: ”Cotone organico? Scordatelo “. I consumatori semplicemente non compravano i vestiti biologici per i prezzi elevati e tanti coltivatori andarono in rovina o tornarono a coltivare in maniera convenzionale. Tanti “capitali del cotone” americano scomparvero. Oggi ci sono 68 Organic Cotton Farm negli USA e la maggioranza del cotone organico utilizzato dai brand statunitensi proviene da altri paesi: il 47% del raccolto internazionale proviene dall’India, il 21% dalla Cina e il resto da una manciata di altri paesi come Turchia, Kirghizistan, Tagikistan e Tanzania.
Eppure proprio dal cotone potrebbe prendere forma il futuro del fashion negli USA. In una piccola cittadina dell’Alabama, Florence, una delle capitali del cotone, un movimento di designer e creativi sta ricreando una piccola industria dello slow fashion, approfittando della disponibilità del materiale e dei costi bassi per vivere in lavorare proprio lì, nel cuore dell’America. Tornerò a raccontarvi questa storia.
E3, il cotone americano che punta tutto sulla sostenibilità
Viene definito come il cotone più sostenibile al mondo, si chiama e3, è prodotto negli Stati Uniti ed è un cotone ottenuto specificatamente con le sementi di cotone Fibermax® e Stoneville® dell’azienda tedesca BASF. Il cotone e3 ha il suo punto di forza nel sistema di tracciabilità: il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti tiene traccia delle singole balle di cotone da 500 libbre dopo che sono uscite degli impianti che separano le fibre. Questo ha reso possibile rintracciare il cotone attraverso le manifatture dove viene lavorato che accettano di non mescolare lotti e3 con altro cotone. E3 cerca di dare una risposta al problema della tracciabilità dei lotti di cotone che provengono da piantagioni diverse.
Sono pochissime le piantagioni di cotone che lo utilizzano e garantisce un sistema di tracciabilità infallibile. La Wrnagler è stata la prima azienda a utilizzarlo nel 2020 nella sua Rooted Collection, uno speciale assortimento di jeans e camicie che è stato un vero e proprio banco di prova. Ma già altri brand americani hanno annunciato di volerlo utilizzare nelle collezioni 2021.
L’intervista con Marzia Lanfranchi e il Manifesto di Cotton Diaries
Ed eccoci all’intervista. La protagonista è Marzia Lanfranchi, co-founder di Cotton Diares insieme a Simon Ferrigno. Si tratta di un network internazionale di esperti di cotone specializzati nella fase di lavorazione che va dal seme alla filatura, che ha steso anche un manifesto del cotone sostenibile. Ascoltate il podcast per sentire cosa mi ha raccontato.