In Francia c’è un ministro-ombra della moda: il New York Times ha definito così Brune Poirson, ministro della transizione ecologica e inclusiva, che da tre anni si sta impegnando particolarmente degli aspetti ambientali collegati al mondo della moda. Si è guadagnata questo appellativo per lavoro fatto per evitare che le aziende del fashion distruggano i capi invenduti. Non solo: ha anche cercato di rendere obbligatorio il filtro per lavatrice che evita il rilascio di microplastiche nell’acqua.
Anche noi da poco abbiamo un Ministro della Transizione Ecologica, chissà che anche il nostro Governo non voglia puntare gli occhi sul mondo della moda per ridurne l’impatto. Sicuramente il Governo di tessile e moda dovrà occuparsi molto nei prossimi mesi, perché ci sono molte cose in ballo. Quali sono?
- la normativa applicativa sulla responsabilità estesa del produttore (EPR);
- l’entrata in vigore della raccolta differenziata dei rifiuti tessili fissata al 1 gennaio 2022;
- la normativa end of waste
Sono tutte cose importanti, sulle quali l’Europa sta lavorando da tempo e che l’Italia dovrà affrontare con serietà.
I rifiuti tessili: come l’Europa sta affrontando il problema
Secondo un’indagine della Commissione Europea ogni cittadino europeo produce 11 kg di rifiuti tessili all’anno. Di questi l’87% finisce in discarica o viene incenerito. Oppure viene esportato in India o in Pakistan per essere distrutto. L’obiettivo europeo è quello di ridurre al 10% la percentuale di materiale che finisce in discarica entro il 2035: per fare questo è necessario incentivare il riuso e il riciclo e fare in modo che si riduca la parte di materiale destinata all’inceneritore.
Ci sono degli studi che dimostrano che allungare la vita di un capo di 9 mesi porta a una riduzione del 20% della sua impronta ambientale in termini di produzione di CO2, consumo di acqua, produzione di rifiuti.
Per incentivare la creazione di filiere apposite in grado di gestire il fine vita dei tessili, l’Europa ha deciso che dal 1 gennaio 2015 sarà obbligatoria la raccolta differenziata dei tessili. L’Italia ha deciso di anticipare questa data al 1 gennaio 2022, ma c’è già odore di proroga.
Cos’è l’EPR responsabilità estesa del produttore
Per stimolare la riduzione dell’impatto dei rifiuti tessili già alla loro origine è stata emanata la normativa EPR, sulla responsabilità estesa del produttore (ne avevo già parlato in questo post). Si tratta praticamente di imporre al produttori la responsabilità finanziaria e operativa della gestione del ciclo di vita del prodotto, quando questo diventa rifiuto.
In questo modo i produttori di abbigliamento sono stimolati a prendere delle misure che stimolino la riciclabilità, la riparabilità e la riutilizzabilità del prodotto. Un percorso analogo è stata stato seguito per i rifiuti plastici, per la carta, per i rifiuti elettrici. I modelli applicabili sono diversi e ancora l’Italia non ha definito in quale direzione si muoverà. La soluzione più probabile è che il produttore che immette il prodotto sul mercato debba pagare una quota per ogni pezzo che verrà poi utilizzato per il suo smaltimento, studiando anche un sistema premiale per chi utilizza materiali provenienti da riciclo. L’Italia ha fatto un decreto legislativo generale su questo tema, il 116/2020, ma manca la normativa attuativa per il tessile.
Ad oggi in Italia la raccolta della frazione tessile viene fatta da alcune amministrazioni e genera circa 130.000 tonnellate l’anno. Oggi le raccolte differenziate trovano sbocco nel riuso, nel recupero sotto forma di pezzame industriale o di imbottiture e solo in piccola parte nel riciclo delle fibre naturali di qualità (lane e cotone).
I nuovi modelli di business collegati al recupero
Proprio negli ultimi anni stiamo assistendo al proliferare di nuovi modelli di business che si basano sul recupero degli abiti usati: il second hand è una ricchezza, così come lo è l’upcycling. Dobbiamo anche tenere conto che la gestione degli abiti usati fornisce risorse importanti alle associazioni di volontariato che li raccolgono e che cercano di recuperare i capi ancora in buone condizioni. C’è poi anche una filiera che gestisce gli abiti di seconda mano, destinandoli ai mercati africani o all’Europa dell’est. Quindi l’abito usato è ancora una risorsa, se in buone condizioni.
La sfida è quella di salvaguardare la donazione dell’abito usato in buone condizioni, come gesto di solidarietà ma anche etico, e destinare alla raccolta differenziata dei tessili i materiali che ormai possono essere considerati rifiuti. La sfida è quella di fare in modo che questi prodotti a fine vita possano ancora essere in qualche modo riciclati, grazie a una progettazione circolare, che permetta di smontarli per ricavare materiali in grado di diventare di nuovo fibra da utilizzare.
L’EPR in Francia e le proposte in Olanda
La Francia ha una normativa EPR dal 2007. Si prevede che ogni anno i produttori del fashion dichiarino la quantità di materiale che hanno immesso sul mercato. Pagano un contributo per la gestione del fine vita che va da 0,01 euro a 2 euro. Questi fondi vengono utilizzati per lo smaltimento dei materiali e per azioni di comunicazione.
Anche l’Olanda, che si è posta l’obiettivo di diventare pienamente circolare entro il 2030, sta pensando all’introduzione del contributo obbligatorio. Inoltre il Governo ha proposto degli obiettivi per aumentare l’utilizzo dei materiali riciclati, proponendo anche di trattenere almeno il 10% degli indumenti destinati al riutilizzo entro i propri confini, evitando l’esportazione in Asia e Africa.
Il tema è in divenire, ma sicuramente è la sfida che ci attende nei prossimi anni.
Il consumatore etico non basta
Secondo Euromonitor nel 2000 sono stati prodotti 50 miliardi di prodotti di abbigliamento; nel 2015 sono diventate 100 miliardi. L’impatto ambientale e sociale della moda è ormai così alto da non poter immaginare che possano essere i brand a autoregolarsi oppure che possano essere i consumatori con le loro scelte consapevoli a bloccare la crescita esponenziale dell’inquinamento causato da questo settore. E’ necessario l’intervento deciso dei Governi, che devono regolamentare il settore della moda così come già viene fatto per l’agricoltura o il petrolio. La giornalista Elizabeth L. Cline, autrice di importanti libri sulla moda sostenibile come “Overdressed”, l’ha raccontato qualche settimana fa in un articolo che ha fatto il giro del mondo e ha creato un acceso dibattito (qui il link), soprattutto negli USA. Anche Biden dovrà occuparsi della moda, questo è certo.
Intanto resta da capire come l’Italia, che è uno dei Paesi che vanta la maggiore esperienza nel riciclo, riuscirà a venire a capo di queste nuove sfide. Per le aziende del tessile questa può essere anche una grande opportunità, ma va maneggiata con cura.