E’ stato rinnovato il Bangladesh Accord, la nuova versione entrerà in vigore il 1 settembre. Non solo: è anche stato esteso ad altri Paesi. Un risultato per niente scontato, frutto del lavoro di attivisti e ONG che hanno fatto pressione sui brand per portare a casa il rinnovo. Una grande vittoria, che dimostra quanta pressione possano essere esercitare campagne ben organizzate, perché su questo tema si sono mossi anche tanti consumatori. Ma quello che è stato ottenuto è sufficiente? O meglio, quel modello di controllo che viene proposto è davvero efficace?
Cos’è il Bangladesh Accord
Innanzitutto, cos’è il Bangladesh Accord: è un accordo stipulato dopo il crollo del Rana Plaza nel 2013 che ha ucciso più di 1.100 lavoratori dell’abbigliamento. L’accordo prevedeva l’istituzione di un organismo indipendente che ha effettuato migliaia di ispezioni focalizzate soprattutto a verificare la sicurezza sui luoghi di lavoro, imponendo ai firmatari di interrompere i propri rapporti commerciali con i fornitori non in regola. I risultati ci sono stati: ha contribuito a rendere più sicure circa 1.600 fabbriche per 2 milioni di lavoratori, secondo gli attivisti sindacali.
Quello che distingue il Bangladesh Accord dalle altre iniziative del settore è che considera i marchi firmatari legalmente responsabili delle violazioni della sicurezza nella loro catena di approvvigionamento e richiede loro di investire alcune risorse finanziarie per risolverli. Le specifiche degli impegni finanziari sono determinate caso per caso e sono più deboli di quanto dovrebbero essere, secondo i critici, ma la semplice esistenza del meccanismo di responsabilità è stata rivoluzionaria. L’accordo era stato firmato da quasi 200 marchi internazionali, tra cui H&M, PVH e Primark,
Il nuovo accordo, che ha una validità di 26 mesi, contiene molti punti dell’originale, inclusa la possibilità di sottoporre i rivenditori ad azioni legali se le loro fabbriche non soddisfano gli standard di sicurezza del lavoro oltre alla responsabilità condivisa di governance tra fornitori e marchi e un meccanismo di reclamo indipendente. Adesso si tratta di capire quali sono i brand che firmeranno. H&M e Zara sono stati i primi firmatari, altri brand stanno invece facendo storie.
Il ruolo della catena di fornitura
Praticamente il sistema si basa sull’onere di controllo da parte del brand sulla propria catena di fornitura: è il brand che diventa responsabile del comportamento dei propri fornitori, che può decidere chi tenere dentro e chi sbattere fuori dal proprio ciclo di produzione. E’ giusto che i soggetti scorretti siano isolati, ma la questione è molto più complessa. Spesso lo sfruttamento che i fornitori esercitano sui propri lavoratori sono legati a una iniqua spartizione del rischio imprenditoriale tra brand e aziende produttrici, con una carico finanziario che pesa molto di più sulle spalle del fornitore.
Ad esempio le aziende che producono capi di abbigliamento anticipano i costi per la produzione dei capi, che devono essere assemblati, poi controllati e spediti dall’altra parte del mondo, dove finiranno in negozio. Un percorso lungo diverse settimane, durante il quale il fornitore è esposto finanziariamente per una parte della fornitura. E se poi i trend di consumo cambiano in queste settimane di lavorazione? Spesso vengono richiesti degli sconti ai fornitori. In un sistema del genere, chi vuole stare in questo business ha come unica leva per agire sui propri costi quello di costringere i lavoratori a lavorare molto, in condizioni di scarsa sicurezza, e sotto pressione. Se poi si tiene conto che la maggioranza di questi lavoratori sono donne, è ancora più semplice agire in certi Paesi.
Per non parlare della questione degli ispezioni: il Bangladesh Accord, come tanti altri commitment o come è previsto anche dalle policy dei brand, si basa sullo svolgimento di controlli periodici presso i propri fornitori. Peccato che a svolgere questo lavoro c’è spesso personale poco preparato o facilmente corruttibile che rende il sistema inefficace (ne ho parlato qui).
La catena di fornitura del fashion si regge sul lavoro di uomini e donne che mediamente lavorano 62 ore a settimane, che stanno alle macchine da cucire senza avere nemmeno la possibilità di pensare, perché la pressione alla quale sono sottoposti per rispettare gli standard produttivi è enorme. Lo racconta Maxine Bédat nel suo libro “Unraveled” (che vi consiglio) con un paio di testimonianze davvero toccanti. Queste persone lavorano duramente per ottenere un salario che non permette loro di vivere dignitosamente: il “living wage” è il vero obiettivo e chi non è disposto a pagarlo, deve essere messo fuori dal mercato.
Il prezzo di un lavoro dignitoso
Oggi mediamente un lavoratore o una lavoratrice che produce un abito riceve tra lo 0,5% e il 4% del costo del capo. Questo significa che su un paio di jeans che costa 20 euro, solo una cifra che oscilla tra i 10 e gli 80 centesimi finisce nelle tasche di chi ha cucito il capo.
Maxine Bédat dimostra che su una t-shirt del costo di 25 dollari, un ricarico di 17 centesimi sarebbe sufficiente a garantire un salario dignitoso, il “living wage”, al lavoratore.
Partner, non fornitori
La responsabilità si basa sulla condivisione: se chi è responsabile ha una posizione di forza, questo crea una situazione che causa ulteriore sfruttamento. Se il brand ha un fornitore che non rispetta certi standard, può lasciarlo e lavorare con un altro fornitore. Ma se quello standard non è raggiungibile a certe condizioni, quali alternative ha il fornitore?
Per questo è necessario costruire un nuovo modello di gestione della catena di fornitura, con rapporti stabili, che si basano sulla condivisione del rischio e di obiettivi, in un percorso di crescita comune. Altrimenti la concorrenza si baserà sempre e solo sul prezzo e ci sarà sempre qualcuno disposto a lavorare per un prezzo più basso, pagato dal lavoro di qualcun altro.
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