Preservare la biodiversità è un tema centrale per le aziende della moda: secondo il “Biodiversity Insights Report” di Textile Exchange il 51% delle aziende la riconosce come un rischio prioritario e il 59% ha assunto impegni pubblici per affrontarla. I risultati emergono da un’indagine effettuata tra 157 aziende di moda e tessili tra cui Hermès, H&M, Kering, Norrøna e Ralph Lauren. L’impegno dei brand sta andando in questa direzione, ma per adesso nella maggioranza dei casi si tratta solo di buone intenzioni, non confermate da strategie concrete. Solo il 14% delle aziende conosce i Paesi dove vengono coltivate o estratte le loro principali materie prime. Ed è difficile progettare azioni che possano mitigare l’impatto della produzione ed avere un approccio rigenerativo se non si sa di quali zone del mondo stiamo parlando.
Avere informazione sui Paesi d’origine non è sufficiente per mettere a punto una strategia efficace per preservare la biodiversità: infatti il 15% degli intervistati ha già iniziato a mapparli rispetto alle aree prioritarie e l’8% ha già in atto una strategia esplicita sulla biodiversità.
I temi della biodiversità e dell’agricoltura rigenerativa sono temi complessi, che avevo già iniziato ad affrontare in questo articolo. Ma negli ultimi mesi se ne sta parlando moltissimo, complice anche la conferenza COP26 che si sta svolgendo a Glasgow. Un milione degli otto milioni di specie del pianeta sono a rischio di estinzione e, all’inizio di quest’anno, un importante rapporto congiunto dell’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES) e dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) ha evidenziato il ruolo integrale della biodiversità nella mitigazione dei cambiamenti climatici (ne avevo parlato in questo episodio del podcast)
L’obiettivo di Textile Exchange è quello di mobilitare l’industria affinché diventi “nature positive” entro il 2030, con una riduzione del 45% delle emissioni di CO2 dalla produzione di fibre e materiali tessili entro lo stesso anno.
Nature Positive secondo Gucci
Ma cosa significa “Nature Positive”? Gucci ha lanciato la sua piattaforma Equilibrium dedicata alla biodiversità, in occasione della Giornata della Terra. Per il brand del lusso questo impegno è diventato fondamentale. E prendo in prestito le parole del CEO Marco Bizzarri per spiegare il significato del termine Nature Positive: “Assumerci la responsabilità della totalità delle emissioni di gas a effetto serra che generiamo nelle nostre attività attraverso tutta la filiera e tradurre le emissioni che non siamo in grado di ridurre ogni anno in investimenti nature-based a favore del clima è un impegno che le aziende possono assumersi immediatamente“.
I Commitment: quali sono quelli più utilizzati
Per garantire il proprio impegno per il raggiungimento degli obiettivi, le aziende scelgono di aderire a Commitment che dovrebbero servire a dichiarare pubblicamente il proprio impegno per la riduzione dell’impatto della produzione, incrementare la trasparenza, incoraggiare la responsabilità. Il 54% degli intervistati ha aderito al Fashion Pact, il 37% si affida ai Sustainable Develompment Goals.
Il Fashion Pact, al quale hanno aderito i più importanti brand della moda e del lusso, copre tre aree di intervento: fermare il riscaldamento globale, ripristinare la biodiversità e proteggere gli oceani. Sulla biodiversità, che riveste un ruolo importante, l’obiettivo è la condivisione di conoscenze, approcci scientifici e buone pratiche tra i vari attori del settore, per mettere in campo azioni più efficaci.
Solo l’8% delle aziende ha adottato una strategia per preservare la biodiversità, quindi i Commitment sono importanti per definire un cornice comune nella quale muoversi. Ma possono essere solo un punto di inizio, un modo per mettere nelle agende il problema, che però va affrontato concretamente.
Come misurare l’impegno per la salvaguardia della biodiversità?
Se qualcuno timidamente sta tentando di fissare degli obiettivi su questo tema, la misurazione appare complessa. Textile Exchange ci ha provato creando una “Impact Dashboard”, ma la rappresentazione non è molto efficace. Soprattutto non mi convincono le comparazioni con l’utilizzo di materiali convenzionali, perché, soprattutto quando si prendono in considerazione materiali naturali, la zona di produzione influenza molto i dati sugli impatti (ne ho parlato in questo articolo). Ho l’impressione che passata l’era delle certificazioni, che ormai le aziende hanno digerito e fanno parte della quotidianità, stiamo entrando nell’era della LCA: tutti a misurare il proprio impatto usando metodologie diverse. E qui il rischio di dare i numeri è davvero alto.
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