Tecnicamente si chiamano PFAS, in gergo “forever chemicals” e già questo dovrebbe farci capire che non si tratta di niente di buono. Infatti la moda sta cercando di liberarsene da anni, ma senza troppo successo. Lo conferma uno studio dell’organizzazione statunitense Toxic Free Future, che ha analizzato 60 capi presenti sul mercato: nel 75% degli articoli etichettati come resistenti alle macchie o all’acqua erano presenti i PFAS. Di fatto sono sostanze che servono ad attribuire ai capi alcune performance molto apprezzate dai consumatori, soprattutto nell’outdoor. Ma non esiste un processo naturale per scomporli e restano nell’ambiente a tempo indefinito, creando danni seri.
Cosa sono i PFAS
Sono una classe di circa 9 mila composti chimici utilizzati per realizzare prodotti resistenti all’acqua, così efficaci da essere utilizzati in migliaia di applicazioni in dozzine di settori, non solo nella moda: però sono purtroppo collegati a cancro, diminuzione dell’immunità, malattie del fegato, problemi renali, difetti alla nascita e altro ancora. Di fatto vengono utilizzati per creare una membrana che renda più “traspiranti” gli indumenti antipioggia. Quando la barriera o la membrana si rompono, le sostanze chimiche possono finire nell’aria e inalate o su superfici dove possono essere ingerite.
Le sostanze chimiche possono anche essere assorbite attraverso la pelle e sono un problema per i lavoratori nelle fabbriche tessili, dove i ricercatori hanno riscontrato alti tassi di esposizione. Non solo: i PFAS contaminano la falda e il terreno fino a contaminare anche gli alimenti. E’ quello che sta accadendo in Veneto: queste sostanze hanno contaminato la falda, il terreno e sono arrivate anche a contaminare gli alimenti: lo dimostra questo studio uscito qualche mese fa.
Lo studio
Lo studio di Toxic for Free ha analizzato un totale di 60 prodotti – tra cui giacche, pantaloni da trekking, magliette, coprimaterassi, trapunte, tovaglie e tovaglioli – messi in commercio sul mercato americano da grandi rivenditori tra cui Amazon, Bed Bath & Beyond, Costco, Dick’s Sporting Goods, Kohl’s, Macy’s, REI, Target , TJX e Walmart. I PFAS sono stati rilevati in 34 dei 47 prodotti etichettati come resistenti all’acqua o alle macchie o in una variazione simile come “impermeabile” o “idrorepellente”. Tra i marchi che sono stati trovati a utilizzare PFAS c’erano giacche realizzate da Alpine Design e Patagonia, o in collaborazione con Gore-Tex e Teflon. Lo studio ha anche rilevato 13 prodotti etichettati come resistenti all’acqua o alle macchie ma che non contenevano PFAS, cosa che evidenzia che sono disponibili alternative
Le alternative ai PFAS
Queste sostanze che rendono speciali i nostri capi, hanno pochi sostitutivi, ad oggi. Qualcuno ha introdotto sostanze che utilizzano materiali come il poliuretano o il poliestere, che sono comunque prodotti problematici. Altri hanno tentato con la cera di paraffina, ma il rischio è che la soluzione serva solo per spostare altrove l’impatto ambientale ed non può quindi essere ritenuta soddisfacente. La Commissione Europea ha anche pubblicato uno studio dove indica quali possono essere le sostanze sostitutive dei PFAS, ma la strada è ancora lunga.
E’ possibile sapere se quello che acquistiamo contiene PFAS?
Ma è difficile sapere se un capo che stiamo acquistano contiene PFAS oppure no, perché nell’etichetta dei capi non è dichiarato. La maggior parte delle aziende non dice se li utilizza, appellandosi al segreto commerciale. Senza un’etichettatura accurata, è quasi impossibile per i consumatori determinare se un prodotto contiene PFAS.
Ci sono dei brand che hanno preso una posizione decisa per la loro eliminazione: H&M Group, ad esempio, ha lanciato un divieto globale sui prodotti chimici perfluorurati nel 2013 e Burberry afferma che è stato il primo marchio di lusso a eliminarli nel 2015.
Cosa succede in Europa
La Commissione Europea si sta attivando per regolamentare la cosa con decisione: l’Europa potrebbe eliminare gradualmente la maggior parte dei PFAS entro il 2030. Si è conclusa qualche mese fa la fase di consultazione per raccogliere le proposte per l’emanazione del nuovo regolamento.
Negli Stati Uniti alcuni stati stanno fissando dei limiti per i PFAS e per vietare la vendita di tessuti contenenti PFAS, anche citando in giudizio i produttori e ritenendoli responsabili dei costi di bonifica. Gli addetti ai lavori sostengono che, nel complesso, la moda si è allontanata dai PFAS a catena lunga (ad esempio i composti C8) e li ha sostituiti con PFAS a catena corta, che sono stati pubblicizzati come meno dannosi; chi lavora nel mondo della chimica non è molto convinto.
Oeko-Tex, un’associazione internazionale focalizzata sulla sostenibilità nei tessuti e nella pelle, ha una guida all’acquisto che marchi e produttori possono utilizzare per selezionare alternative non PFAS, ma è solo un primo passo. La sfida sarà garantire che siano effettivamente migliorative e non solo un modo per spostare gli impatti altrove. Servono ricerca e sperimentazione e una normativa che impedisca l’utilizzo di queste sostanze anche nei Paesi che ad oggi sono i maggiori produttori di outdoor: i paesi asiatici, Cina in primis. Niente è per sempre: dovremo riuscire ad applicare questa massima anche ai PFAS.
Cover Photo: Unsplash Louis Reed