Le persone sono tornate al centro della comunicazione in tutti i settori e in particolare nella moda. La sostenibilità sociale è protagonista di campagne e iniziative, per raccontare come il benessere dei dipendenti e della catena di fornitura siano al centro dei progetti dei brand. Ma quando questo impegno è autentico e quando si può parlare di social washing? Ne ho parlato con Caterina Micolano, presidente della Cooperativa Alice e di Feat Impresa Sociale, che da anni lavora per l’inserimento di soggetti svantaggiati nel mondo del fashion.
Come è stato dipinto del mondo del fashion negli ultimi anni? Secondo una famosa statistica (non verificata) è il secondo settore più inquinante al mondo, crea disuguaglianze, inquinamento, sfruttamento. Un settore che dietro i lustrini delle passerelle nasconde enormi zone d’ombra, poco trasparente e inclusivo. A nessuno piace acquistare qualcosa sapendo che altri stanno pagando il prezzo sociale e ambientale del prodotto che stiamo comprando.
Ecco quindi che i brand in pochi mesi sono corsi ai ripari e hanno aderito a progetti di solidarietà, i più diversi: progetti con le comunità locali oppure per la formazione e l’educazione dei fornitori. Progetto rivolti all’inclusione delle donne oppure di produzione con il coinvolgimento di soggetti svantaggiati. Le sartorie sociali, che fino a pochi anni fa operavano in maniera quasi invisibile sul nostro territorio, sono adesso ricercatissime (ne avevo parlato anche nell’episodio 43 del podcast che puoi ascoltare qui). Ma è proprio in questi progetti, che in alcuni casi possono essere realizzati senza un reale spirito di collaborazione ma solo per avere una medaglia da esporre sul sito, che si nascondono le insidie del social washing. Perché non c’è solo il greenwashing, ma anche il social washing, appunto, che agisce in maniera più sottile e più difficilmente riconoscibile, ma che ha la stessa finalità farci sentire tutti più buoni.
Cos’è il social washing
Il social washing può essere definito come una pratica volta a migliorare la reputazione di un’azienda attraverso iniziative di responsabilità sociale non realmente efficaci o, nei casi peggiori, sotto le spoglie della responsabilità sociale ma con l’obiettivo di un ritorno economico.
L’impegno della Cooperativa Alice
La Cooperativa Alice opera da anni con soggetti svantaggiati, che nella maggioranza dei casi sono donne recluse in carcere, con pene di media lunghezza. Queste donne iniziano il loro percorso lavorativo in carcere, e poi possono continuare a lavorare anche fuori dal carcere, quando scontano la pena con forme alternative o anche quando hanno terminato di scontare la loro pena. Sono assunte dalla cooperativa e a loro vengono applicati i contratti sindacali: lo dimostra anche la certificazione Fair Trade e il fatto che Cooperativa Alice è stata la prima realtà manifatturiera a ottenerla in Italia.
Le sartorie sociali stanno riscuotendo un grande interesse negli ultimi mesi e le occasioni di collaborazione non mancano: ci sono casi nei quali al brand basta attivare un piccolo progetto, con un budget limitato, per poter comunicare di aver messo in campo una iniziativa di solidarietà in campo sociale. Questo non serve a nessuno.
L’intervista a Caterina Micolano e il progetto del distretto
La sfida è quella di mettere in grado le realtà del sociale di essere un modo diverso di fare impresa e stare sul mercato, esprimendo valori diversi e includendo in maniera positiva categorie di soggetti che rischiano di essere lasciate ai margini. Come dice Caterina Micolano, che tra poco ascolterete nell’intervista, “L’oggetto è lo strumento e non l’obiettivo”: ma quell’oggetto deve essere di qualità, quasi unico.
Con questa filosofia a Cooperativa Alice si sono rivolti brand importanti e designer di grande talento. Il prossimo passo è quello di creare un distretto di imprese sociali che lavorano nello stesso modo e questo serve FEAT Impresa Sociale, che ha preso forma in tempi di pandemia e sta muovendo i primi passi. Caterina Micolano ce ne parla in questa lunga intervista
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