Sono sempre più numerosi i brand africani che si stanno affacciando sul mercato, proponendo un concetto moda nuovo, che crea un mix inedito di tradizione e innovazione. Partirà da qui la rivoluzione dello stile dei prossimi anni?
Ne ho parlato con Francesca De Gottardo, founder del brand Endelea, che tra Italia e Tanzania propone un concetto di moda etica che fonde in maniera perfetta questi due mondi.
Tra Milano e la Tanzania, un brand di confine
Quando si parla di Africa, ci scontriamo con una serie di pregiudizi che per anni hanno fatto parte del modo di raccontare questo continente. Siamo abituati a parlare di Africa come se si trattasse di un enorme paese, omogeneo e fondamentalmente arretrato. In realtà qui convivono una moltitudine di culture diverse, ognuna con le proprie realtà artigianali. E’ un continente giovane, ricco di materie prime, che è stato sfruttato dal nord del mondo per secoli, ma che ha anche una straordinaria vitalità. Francesca De Gottardo 7 anni fa ha scelto la Tanzania prima come Paese partener per sviluppare la propria collezione e poi come luogo dove abitare. Divisa tra Milano e l’Africa, porta avanti il suo progetto creativo “di confine”, perché dell’Italia ha l’attenzione per la qualità e per lo stile e dalla Tanzania ha preso gli spunti creativi e la produzione tradizionale. Oggi Endelea è proprietaria di una sartoria in Tanzania, dove lavora personale specializzato che produce la collezione del brand.
Una fotografia della moda africana
A novembre l’Unesco ha publicato un report interessante dedicato alla moda africana, dal titolo “Africa, a new global fashion leader”: tra tradizione e innovazione, nei prossimi anni questo continente potrebbe giocare un ruolo importante nel mondo della moda. Ci sono già tanti designer che si stanno facendo notare.
Sono i 32 paesi africani che organizzano sfilate e settimane della moda: Abidjan, Casablanca, Dakar, Johannesburg e Nairobi, sono diventati poli di riferimento del design. La cosa più interessante è che queste manifestazioni parlano in linguaggio dell’Africa, propongono qualcosa di diverso dal modello culturale occidentale che per secoli si è imposto.
L’Africa è anche un Paese produttore, innanzitutto di materie prime tessili: sono 37 i paesi che producono cotone (in totale i paesi africani sono 54). La fibra di migliore qualità viene esportata e le filiere produttive della moda nei decenni scorsi sono praticamente scomparse. Togliere agli africani la possibilità di essere autosufficienti, li ha resi buoni acquirenti: oggi si esportano prodotti tessili per un valore di 15,5 miliardi di dollari all’anno e si importano tessili, abbigliamento e calzature per un valore di 23,1 miliardi di dollari all’anno. Non solo: lasciare scomparire la filiera di produzione ha significato anche imporre il gusto occidentale e rendere dura la vita al design made in Africa. La sfida non è quella di rendere questo Paese un produttore di abiti conto terzi, sotto la guida dei marchi occidentali, ma permettere alla creatività locale di prendere forma e di stare sul mercato.
Le cose stanno cambiando: la presenza di una nuova generazione di designer sta attirando i giovani verso il consumo di abiti e accessori made in Africa, che propongo uno stile unico che unisce tradizione e innovazione. Lo stile occidentale non è più l’oggetto del desiderio per una fascia di mercato di nicchia, che però è destinata ad aumentare.
Le sfide della moda africana
Per esprimere tutto il suo potenziale, però, la moda africana deve affrontare alcune sfide. La prima è la protezione della proprietà intellettuale. Deve essere rafforzata la tutela legale di designer e professionisti in termini di diritti di proprietà intellettuale, livelli di remunerazione, condizioni di lavoro e capacità di organizzarsi in sindacati professionali e diritti sociali. L’UNESCO sta già aiutando 23 paesi africani a migliorare lo status degli artisti attraverso leggi e regolamenti.
Strettamente connesso è il tema dell’appropriazione culturale, che è molto delicato. In parte perché il confine tra ispirazione e copiatura è molto labile e poi perché è basato su un approccio “estrattivo” della creatività: prendere, senza lasciare niente alle popolazioni locali: anche in questo ambito sarebbe necessaria una regolamentazione.
Sono anche necessari investimenti nelle PMI, che oggi rappresentano il 90% delle imprese del settore moda in Africa. Sono presenti nell’intero continente, e sono di fatto i custodi della diversità delle pratiche e delle espressioni culturali. Sono inoltre generatori di occupazione locale, soprattutto per i giovani che sono interessati ad entrare nel settore.
Per essere competitivi e potersi misurare con gli altri mercati mondiali, è necessario stabilire standard ambientali. La produzione di fibra di cotone biologico in Africa è già aumentata del 90% tra il 2019 e il 2020 e ora rappresenta il 7,3% della produzione globale. Il mercato dell’abbigliamento di seconda mano è uno dei più dinamici al mondo – rappresenta un terzo delle importazioni globali – ma soffre ancora della mancanza di canali di riciclaggio, con il 40% di questi indumenti che finisce nelle discariche, o addirittura negli oceani e fiumi.
È infine necessario tutelare e migliorare sia la trasmissione del savoir-faire che la formazione. L’Africa è ricca di competenze tradizionali e di tecniche tessili uniche. Sono necessari programmi per fare in modo che queste abilità non si disperdano, ma non solo: l’industria della moda africana ha bisogno anche di altre figure professionali qualificate per essere competitiva: controllo qualità, diritto commerciale, marketing – e nella formazione nelle nuove tecnologie, come la stampa 3D e l’e-commerce.
L’esperienza di Endelea
L’esperienza di Endelea tocca tanti di questi punti: il rispetto della tradizione artigianale Masai e la remunerazione della comunità per l’utilizzo di alcuni disegni; la creazione di una sartoria con personale specializzato in grado di lavorare anche per soggetti esterni; la realizzazione delle campagne pubblicitarie con professionisti locali, scegliendo un linguaggio condiviso; la valorizzazione della catena di fornitura con un sistema di tracciabilità che assicura totale trasparenza. Il brand è italiano, il cuore africano, e tanti giovani che fanno parte della filiera hanno potuto acquisire competenze che adesso fanno parte del loro bagaglio professionale.
Ecco l’intervista con Francesca Di Gottardo