“Made in”, “Heritage”, “Artigianato”: quali sono i veri attributi di valore per un prodotto di lusso oggi? La connessione del consumatore con i prodotti e con il marchio si è interrotta o è solo una crisi temporanea? E in questo contesto, che ruolo può avere la sostenibilità? Ne ho parlato con Andrea Baldo, CEO di Mulberry.
Avevo già incontrato Andrea Baldo, che è già stato protagonista di un episodio del podcast: all’epoca era il CEO di Ganni, il brand danese che ha ridefinito il concetto di sostenibilità nella moda e che propone uno stile mid-luxury basato sulla valorizzazione delle filiere produttive e dei materiali. Poi si è spostato, aggiungendo un altro step della sua lunga carriera tra i brand del made in Italy e le esperienze internazionali: adesso è CEO di Mulberry, uno dei brand inglesi che valorizza il “British Heritage”.
La sua strategia è quella di ripartire da lì, dall’heritage del brand, tornare a recuperare il significato autentico del brand. Proprio la perdita di autenticità ha portato tanti brand del lusso a perdere la connessione con il proprio pubblico: “Tutti devono fare quiet luxury indipendentemente dall’heritage del brand, poi il consumatore si perde”, mi ha detto nell’intervista. E questo, insieme all’aumento ingiustificato dei prezzi, ha portato alla situazione attuale, nella quale sembra quasi che la qualità resti in secondo piano, mentre invece è la forza del brand a trascinare. Peccato che i brand non hanno più una identità forte da comunicare, l’hanno persa cercando di inseguire i profitti, e la filiera produttiva sta facendo i conti con grandi difficoltà.
E’ questo il punto di partenza: il “made in” ha ancora senso? Ormai le filiere produttive sono lunghe e disseminate ovunque. Se prendiamo in considerazione un prodotto in tutte le sue componenti (e non solo riducendolo al materiale principale) ogni capo di abbigliamento è globale. Cosa significa quel “made in Italy” che troviamo apposto? Cosa dovrebbe garantire? Andrea Baldo ha sintetizzato così:
Il Made In rimane se riusciamo a fare il Made In bene, se le persone che lavorano nella catena di produzione effettivamente guadagnano e possiamo attrarre nuovi talenti. Nel momento in cui spremiamo tutto quello che c’è nella fase di produzione e il margine resta tutto ai grandi marchi, che si spostano da un fornitore all’altro, è una politica industriale di breve periodo e anche il Made In ne soffre
Potete ascoltare qui l’intervista: