Un viaggio alle origini del Made in Italy, quando lo stile italiano diventa prodotto da esportazione e le filiere produttive evolvono per rispondere alle esigenze di un mercato che riconosce alla sartoria italiana un grande valore creativo. Ma oggi cosa significa Made in Italy? Ne ho parlato con Chiara Faggella, ricercatrice indipendente e docente di storia della moda, autrice del libro “Becoming Couture”.

Tra il 1944 e il 1953 la sartoria italiana passa dall’essere considerata come una copiatura dei modelli parigini al raggiungimento dello status di “couture”, un’attribuzione di valore e un riconoscimento dell’originalità individuale. Le sfilate di alta moda italiane non furono tanto un’intuizione geniale di Giovanbattista Giorgini, quanto piuttosto il suo abile tentativo di consolidare tendenze e sentimenti che investivano diversi intermediari della moda italiani e americani dell’epoca. Perché di fatto gli USA hanno avuto un ruolo centrale nell’affermazione del made in Italy. Nel suo libro “Becoming Couture”, Chiara Faggella documenta la graduale espansione delle esportazioni di moda italiana verso gli Stati Uniti: dagli accessori e tessuti artigianali; a una piccola serie di abbigliamento sportivo, maglieria e la quintessenza della boutique di moda italiana; fino all’ inclusione nei primi anni ’50 delle sartorie di alta gamma, finalmente riconosciute come rappresentanti originali della nuova haute couture italiana.

Questa storia ci aiuta anche a riflettere su un cambiamento culturale fondamentale: si passa dal desiderio dell’oggetto, che nasce da un modello produttivo artigianale, che ha nella qualità il suo valore principale, al desiderio “dell’idea dell’oggetto”, che mette quasi in secondo piano il valore produttivo del capo di lusso.

Riflettere sulla storia del made in Italy ci aiuta a comprenderne il suo valore odierno, se quel mix percepito di semplicità, accuratezza, creatività è ancora uno dei punti di maggior valore di queste tre paroline magiche di cui si parla tanto, anche se la sua essenza ha contorni un po’ vaghi. Ascoltate l’intervista