Al primo posto una conferma, quella di OVS, al secondo posto Gucci, che ha fatto un grande balzo in avanti rispetto allo scorso anno: l’edizione 2023 del Transparency Index di Fashion Revolution regala qualche sorpresa e tante conferme. In generale, si attesta la difficoltà del sistema moda a fare progressi nella trasparenza, salvo casi di eccellenza. I principali marchi della moda hanno ottenuto un punteggio medio complessivo del 26%, in aumento di appena il 2% rispetto allo scorso anno. Più della metà (52%) dei 250 marchi principali esaminati nel report sta divulgando i propri elenchi di fornitori di primo livello, un cambiamento promettente rispetto ai 32 marchi su 100 (32%) nella prima edizione dell’Indice.
Il mondo del lusso scala la classifica
La performance migliore è stata quella di Gucci, che ha raggiunto un punteggio dell’80% (con un incremento di 21 punti percentuali rispetto allo scorso anno). Ma in generale le maggiori scalate dell’indice sono state registrate dai brand del lusso: Armani, Jil Sander, Miu Miu e Prada.
Il report misura si suddivide in 5 grandi categoria di indagine, che vengono sviluppate da un corposo questionario che oltre 250 brand mondiali sono invitati a compilare: le sezioni sono Policy e Committment (punteggio medio 53%), Governance (36%) , Tracciabilità (23%), “Know, show e fix” (25%), Iniziative spot (18%).
Cosa si dice, cosa si tace
Se su alcuni aspetti si sta facendo un generale sforzo di trasparenza, su altri ancora siamo lontani dalla condivisione di strategie e obiettivi raggiunti. Il 99% dei brand non rivela se nelle catene di approvvigionamento viene pagato un salario dignitoso.
In generale, sono pochi i dati divulgati quando si parla di catena di fornitura. Solo il 7% dei principali brand pubblica i risultati dei test sulle acque reflue dei propri fornitori, anche se il controllo della catena di fornitura è fondamentale per monitorare l’impatto ambientale della produzione. Solo il 6% rivela la percentuale della loro catena di approvvigionamento che è alimentata dal carbone e quali regioni geografiche dipendono ancora dai combustibili fossili. Solo il 12% dei marchi ha pubblicato quest’anno un impegno misurabile e limitato nel tempo per eliminare la deforestazione.
La fiscalità responsabile, un aspetto poco noto
I principali brand continuano a sottrarsi a responsabilità come le pratiche fiscali e di acquisto che riducano le disuguaglianze all’interno del settore.
Meno della metà (45%) dei principali marchi pubblica la propria strategia fiscale responsabile, rendendo evidente che è fondamentale che i governi implementino un sistema fiscale per garantire che le multinazionali paghino quello che devono nei Paesi dove operano.
Inoltre, nel report si evidenzia che i brand stanno adottando sempre più spesso modelli on-demand direct-to-consumer (D2C), ordinando quantità di capi molto piccole e concordandole con i fornitori in anticipo. Gli acquisti fatti in questo modo, volatile e imprevedibile, mettono i fornitori a rischio e i lavoratori sotto un’enorme pressione. I modelli D2C aiutano anche i marchi di moda a evitare le tasse ed eludere le normative sul lavoro forzato.
La sovraproduzione, l’elefante nella stanza
Tutti sanno che la moda produce troppo, quantitativi molto al di sopra di quello che viene acquistato, per mantenere sempre viva l’offerta. Eppure questo dato non emerge: l’88% dei band non rivela i volumi di produzione annuale, il primo passo per fare un monitoraggio di quello che viene destinato al mercato e di quello che è destinato a finire come scarto invenduto.
Potete leggere il report integrale a questo link.