Fabbriche chiuse, coprifuoco, blackout delle comunicazioni: nelle ultime settimane il Bangladesh ha dovuto fare i conti con una protesta interna molto violenta che ha portato alla fuga della Prima Ministra Sheikh Hasina e al possibile ripristino di un nuovo Governo, guidato da Mohammad Younus, premio Nobel nel 2006. Ad innescare la protesta degli studenti è stata la richiesta di revisione del metodo di assegnazione degli ambiti posti di lavoro statali. Prima dei risultati ottenuti in seguito alla protesta esisteva sistema di quote “discriminatorio” che riservava il 56% dei posti di lavoro statali a determinate categorie di candidati, compresi i parenti dei veterani che combatterono nella guerra d’indipendenza del Bangladesh del 1971. E’ intervenuta poi una sentenza della Corte Suprema che ha stabilito che il 93% dei posti di lavoro statali sarà aperto ad assunzioni basate sul merito. Nonostante la questione sia stata risolta, l’escalation della protesta non si è placata.
Il Bangladesh sembra pronto ad aprire una nuova fase e a tornare alla normalità, ma le cose potrebbero non essere così semplici. In tutto questo caos il settore dell’abbigliamento, che rappresenta circa l’85% dell’export del Paese, si trova in una situazione complicata: il malcontento generale affonda le sue radici anche nell’industria dell’abbigliamento locale e nelle condizioni di lavoro praticate nel settore. Allo stesso tempo le proteste stanno creando danni e ritardi nella produzione, in un momento strategico, mentre sono in lavorazione gli ordini che dovranno essere consegnati per la stagione invernale. Tutto questo potrebbe portare alcuni brand a prendere la decisione di considerare nuovi fornitori in altri Paesi e ridurre la propria presenza in Bangladesh, una eventualità che l’industria locale vuole evitare.
Arifur Rahaman Tuhin, corrispondente di The Business Post, da Dacca mi ha aiutato a capire meglio cosa stava accadendo. “Le fabbriche riprenderanno la produzione da domani (ndr mercoledì 7 agosto) perché la situazione è quasi normale. Alcune fabbriche, i cui proprietari erano sostenuti da Hasina, sono state danneggiate durante la protesta. A causa della chiusura della produzione, c’è un enorme volume di arretrati nelle industrie della moda e i brand hanno chiesto di smaltirli il prima possibile. Gli ordini verranno rispettati, eccetto che per le fabbriche colpite dalla protesta”.
Politici, società civile e studenti stanno lavorando per formare un governo ad interim, e gli studenti hanno proposto il nome di Mohammad Younus come capo del Governo, che dovrebbe restare in carica per 90 giorni e traghettare il Paese verso nuove elezioni. Gli imprenditori che lavorano con il mondo della moda sanno che gli occhi dei loro clienti sono puntati sulla risoluzione della crisi e cercano di minimizzare la complessità della situazione, sperando che la normalità sia ripristinata in fretta. Ma lo scossone è stato potente e ha portato alla luce un disagio profondo da parte della popolazione.
L’incognita degli ordini dei brand
Resta quindi da capire cosa faranno i brand, se manterranno gli impegni presi o se cercheranno nuovi fornitori in altri Paesi, per il timore che la protesta non sia sopita. D’altra parte le proteste in piazza stavano andando avanti da diversi mesi, anche se per ragioni diverse. Regna un clima di attesa, nessuno si espone sulle strategie future. Ma il Bangladesh, che appariva come un Paese tranquillo, ha mostrato un nuovo volto.
“Quello che è accaduto non era prevedibile. La protesta è iniziata inaspettatamente a causa della questione delle quote, ma il numero di morti e di attacchi agli studenti l’ha trasformata in un risultato inevitabile. – mi ha raccontato da Dacca Iffat Aria Munia, corrispondente di apparelresources.com – Il Bangladesh è considerato e crediamo continuerà ad essere considerato un Paese a basso rischio per la filiera della moda. Ci auguriamo che l’attuale crisi venga risolta con il nuovo governo. Tuttavia, se il Paese dovesse sperimentare ulteriori turbolenze, l’intera economia, compreso l’abbigliamento, sarebbe a rischio”.
L’impatto della protesta sul settore moda è stato molto pesante: si parla di 150 milioni di dollari al giorno persi dall’industria dell’abbigliamento, che è andata ad acuire una situazione già complicata. Già da diversi mesi il blocco del Mar Rosso aveva reso più difficili i trasporti e la crisi energetica che sta attraversando il Paese non ha aiutato. Il problema non è quindi solo legato alla riapertura delle fabbriche, ma anche allo smaltimento di un arretrato che potrebbe portare a 3 o 4 settimane di ritardo nella consegna degli ordini.
Quanto di questo malcontento affonda le sue radici nelle fabbriche di abbigliamento?
“I lavoratori sono ancora scontenti del loro salario minimo. Ma fanno regolarmente il loro dovere da quando è stato implementato a partire da dicembre dello scorso anno. – aggiunge Arifur.
Lo scorso novembre i lavoratori dell’abbigliamento avevano protestato in maniera decisa contro il Governo chiedendo l’innalzamento del salario minimo che era fissato a 8.300 taka al mese, poco più di 70 euro. A dicembre il Governo aveva accettato di alzare il salario minimo mensile a 12.500 taka (106 euro), una conquista relativa perché l’aumento previsto è molto inferiore rispetto a quello richiesto dai sindacati, che chiedevano 23mila taka, cioè circa 200 euro. Il Bangladesh è un Paese dove vivono 180 milioni di persone: il salario medio è di 280 euro, molto inferiore al salario minimo previsto nell’abbigliamento. Questo perché il settore si compone prevalentemente di donne, che hanno una minore forza contrattuale.
I giovani vogliono ancora lavorare nell’abbigliamento?
“La popolazione del Paese è ora più istruita di quanto lo fosse in passato. Le aziende manifatturiere sono guidate da leader di seconda generazione, spesso più giovani. – mi ha spiegato Iffat – Direi che ora nel settore della moda sono coinvolte persone più istruite, ma il coinvolgimento delle donne è stato inferiore a livello di lavoratori, anche se i produttori stanno fornendo e implementando per loro alcune iniziative a lungo termine, che le ispirano a partecipare di più.”
Il punto è che i giovani non sono interessati a lavorare in un settore che ormai è diventato sinonimo di sfruttamento e questo rende difficile il turn over all’interno delle fabbriche oppure sopportare picchi di lavoro eccezionali, come quelli che dovranno essere affrontati per smaltire gli ordini inevasi a causa della protesta.
“L’economia del Bangladesh dipende fortemente dall’industria dell’abbigliamento, che impiega milioni di lavoratori, prevalentemente donne. Di conseguenza, esiste una pressione significativa per mantenere bassi i costi di produzione per rimanere competitivi nel mercato globale. Qualsiasi miglioramento sostanziale delle condizioni di lavoro potrebbe portare ad un aumento dei costi di produzione, che potrebbe scoraggiare gli investimenti esteri o spingere i produttori a trasferirsi in Paesi con costi di manodopera più bassi. Anche se ora è fissato un costo salariale minimo. – aggiunge Iffat – Oltre ad avere leggi sul lavoro in Bangladesh destinate a proteggere i lavoratori, l’applicazione è spesso debole a causa della corruzione, della mancanza di risorse e di una governance inadeguata. Ciò porta a una situazione in cui molte fabbriche non rispettano le normative esistenti e i lavoratori hanno mezzi limitati per difendere i propri diritti”.
Il Bangladesh, di fatto la “fabbrica” di abbigliamento più importante del mondo dopo la Cina, sta presentando il conto a un settore che per anni ha prosperato facendo leva anche su una situazione sociale che adesso sembra destinata a cambiare. Resta da capire come.