Garantire la provenienza della materia prima con la quale vengono realizzati i nostri capi di abbigliamento è sempre più importante, ma è anche molto complicato e a volte insidioso. La trasparenza della filiera produttiva esercita un fascino sempre maggiore sui consumatori che vogliono essere certi che quello che acquistano rispetta standard ambientali e sociali accettabili. Ma spesso quella che viene chiamata trasparenza è solo una rassicurazione che ha poco significato all’atto pratico.
Ce lo conferma la situazione sempre più grave che si sta registrando in Cina, nella regione dello Xinjiang, dove è in corso una situazione si gravissimo sfruttamento della popolazione Uigura. Rinchiusi in centri di rieducazione ed costretti al lavoro forzato nelle piantagioni di cotone (qui trovate il link al rapporto del Center for Global Policy di Washington che ha denunciato la situazione), gli uiguri sono dei veri e propri schiavi del cotone. Della situazione si è iniziato a parlare dalla scorsa primavera, quando fu un report australiano a mettere in luce la situazione.
Nello Xinjiang si produce il 20% del cotone mondiale, grazie al contributo di mezzo milione di persone che vivono in questi centri. Alcuni brand sono stati messi sotto accusa dall’opinione pubblica perché utilizzano cotone proveniente da quell’area: qualcuno ha ammesso di non saperlo con certezza, nonostante sui loro siti compaiano accurate mappe della catena di fornitura. Il gruppo Kering ha preso posizione facendo un comunicato stampa nel quale dichiara di essere assolutamente certo della propria catena di fornitura e di non essere coinvolto nello sfruttamento degli uiguri. Il produttore di Calvin Klein PVH ha detto che smetterà del tutto di usare il cotone dello Xinjiang entro il prossimo maggio.
So di non sapere: l’unica ammissione possibile
Io credo che nessun brand sappia con certezza da dove proviene la materia prima con la quale realizzano i propri capi. Dal campo alla fabbrica ci sono tanti passaggi, difficili da controllare. Un cotone tracciato non è diverso da un cotone non tracciato: a fare la differenza sono i documenti che lo accompagnano, perché la tracciabilità è spesso solo documentale. E far tornare le carte può essere molto semplice, per chi ha intenzione di frodare.
Concentriamoci solo sugli step della produzione che vanno dalla raccolta della materia alla produzione del filato:
- C’è la coltivazione e la raccolta del cotone in campo, e già questa è una fase molto delicata (potete ascoltare l’episodio 26 del podcast “Tutto quello che devi sapere sul cotone organico”)
- Poi il commerciante acquista cotone grezzo da diversi agricoltori e li combina insieme tutti i prodotti prima di venderli alle fabbriche, spesso con delle aste;
- Il cotone grezzo viene trasferito agli impianti che estraggono i semi, puliscono le capsule e poi le fibre vengono trasformate in filo;
- Il commerciante acquista bobine di filo da vendere alle fabbriche che produrranno il tessuto.
Tantissimi passaggi, difficili da seguire. Potete immaginare che sapere che quel cotone che dovrà essere tessuto e viene poi trasformato in abito proviene da una determinata piantagione e che in questa piantagione vengono rispettati certi standard, è molto complicato.
Serve una filiera integra, che condivida i valori del brand e che riconosca nella responsabilità il proprio valore. Ma spesso non è così, perché quel materiale, che deve fare tutti quei passaggi, deve anche costare poco, il meno possibile, e la tracciabilità è spesso una scocciatura. Prendono forma così le truffe e le numerose zone grigie che ci sono in questo settore. Se nello Xinjiang si produce il 20% del cotone mondiale, è probabilmente anche dovuto al fatto che è molto economico, perché viene prodotto con lo sfruttamento di così tante persone.
Gli audit: un’arma spuntata
Come cerca di tutelarsi il brand da brutte sorprese che possono provenire dalla propria catena di fornitura? Definendo rigidi capitolati che fa accettare ai propri fornitori e andando a verificare sul campo quello che succede effettivamente nelle aziende dove produce con gli audit. Ma una recente indagine della Cornell University ci dimostra che il 40% degli audit sono falsi, soprattutto in Cina e in India (potete leggere il post “La moda naviga tra linee guida, agreement e audit: ma sono davvero efficaci per garantire i diritti dei lavoratori?). Quindi se quelle verifiche devono servire a far stare tranquilli i consumatori che quello che viene dichiarato nelle etichette, nei siti, nei report, è reale, l’obiettivo sembra lontano dall’essere raggiunto.
Probabilmente non sono sufficienti capitolati e audit per poter essere certi che la filiera produttiva sia a posto: serve invece un nuovo patto con i propri fornitori, che li coinvolga in un progetto comune con il brand. Questa sembra essere la strada che verrà seguita nei prossimi mesi per poter superare la crisi Covid: i brand cercheranno di costruire filiere agili, con le quali condividono i propri valori, accompagnandole anche in un processo di crescita. (lo conferma anche il rapporto The State of Fashion 2021, ve ne ho parlato qui).
Stop alle certificazioni in alcune zone della Cina: la decisione di BCI
Tra il Covid e le difficoltà legate alla situazione politica, BCI Better Cotton Initiative, ha deciso di prendere una posizione chiara: sono state sospese le attività di verifica in alcune zone della Cina, Xinjiang compreso, perché per l’organizzazione è diventato impossibile garantire la tracciabilità della produzione e la provenienza del cotone organico da piantagioni dove viene rispettato il disciplinare. Un blocco importante, che creerà non pochi contraccolpi sul mercato del cotone organico: il cotone BCI è diventato l’oggetto del desiderio, escludere buona parte di quello cinese, significa creare grosso fermento nel mercato.
Una grossa truffa in India ha anche coinvolto Textile Exchange con il cotone organico certificato GOTS: sono state bandite alcune aziende e l’organizzazione ha cercato di ripristinare la situazione, eliminando i soggetti scorretti.
Ma quando non si ha il controllo di una situazione, non è meglio fermarsi, per non creare una situazione di sfiducia generale? Se un consumatore non può credere a quello che viene certificato, come può fare per conoscere la verità su quello che indossa?
Cosa stanno facendo gli USA…
A settembre, la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato in modo schiacciante l’Uyghur Forced Labour Prevention Act (H.R. 6210): un disegno di legge per porre fine all’uso del lavoro forzato uiguro nelle catene di fornitura attraverso il divieto di importare ogni materiale prodotto nella regione uigura, salvo che il marchio sia in grado di dimostrare che non sia stato utilizzato lavoro forzato.
La Coalizione End Uyghur Forced Labour chiede in particolare ai marchi e ai distributori di: terminare il rifornimento di cotone, filati, tessuti e prodotti finiti dalla regione uigura; interrompere qualsiasi relazione con le aziende fornitrici di materiali tessili che sfruttano lavoro forzato – sia quelle che operano direttamente nella regione uigura, sia quelle che hanno accettato sussidi governativi e/o manodopera dal governo cinese; vietare a qualsiasi fabbrica fornitrice situata al di fuori della regione uigura di utilizzare i lavoratori forniti attraverso il programma di lavoro forzato del governo cinese previsto per il popolo uiguro e turco-musulmano.
Ancora la legge non è stata approvata, ma ci sono notizie di diversi gruppi di pressione che stanno cercando di ammorbidire quanto previsto. Si è così capito che da quella regione provengono materiali e semilavorati a prezzi concorrenziali che l’industria, non solo quella della moda, utilizza senza farsi troppe domande.
….e il Parlamento Europeo
Il Parlamento Europeo ha appena votato una risoluzione nella quale esprime una decisa condanna politica nei confronti di quello che sta accadendo in Cina, anticipando anche la possibile applicazioni di sanzioni commerciali, chiedendo anche la possibilità di fare una missione esplorativa nel Paese. L’Unione Europea sta da tempo lavorando a un regolamento che dovrebbe vietare l’ingresso di merci che provengono da zone o da aziende che non garantiscono il rispetto dei diritti umani, un gesto per fermare non solo lo sfruttamento nella regione cinese, ma anche per mettere la lente d’ingrandimento dove la vita di una persona vale meno di una t-shirt a basso costo.